“Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”
PPP, Supplica a mia madre
Scandito alla maniera di un romanzo di formazione (nel suo impervio percorso costellato di slanci e delusioni, di fervide utopie e dure realtà) il Diario segreto di Pasolini è in effetti il racconto di un antefatto assoluto che, se letto in retrospettiva, risponde a una semplice domanda: che cos’è un destino? Ovvero: che cosa implica, nella vita di qualcuno, il fatto di diventare un poeta?
Diario segreto di Pasolini risponde alla domanda assemblando una sequenza di immagini di repertorio che la matita di Gianluca Costantini riceve, virandola nel biancoenero del ricordo, e Elettra Stamboulis traduce con nettezza affettuosa in una bande dove le parole stesse del futuro poeta (reali, immaginate, talora reinventate) costituiscono una didascalia ovvero un controcanto alle immagini e, insieme, la loro necessaria integrazione.
Chi conosca anche sommariamente la vita di Pasolini (riguardo alla quale soccorrono le storiche biografie di Enzo Siciliano e Nico Naldini, oltre a un ingente epistolario e sterminate testimonianze) qui ne ritrova le stazioni e gli snodi a partire da un quadro familiare che il giovane Pier Paolo un giorno assocerà agli Atridi, identificandosi con la figura ora di Oreste ora di Edipo, dimidiato tra un padre, il militare Carlo Alberto, troppo diverso da lui per psicologia e temperamento, e una madre, Susanna, invece dolce e sororale, amata ab origine di un amore totale e persino irrimediabile.
Alle sue spalle, come in un trasparente cinematografico, scorrono le immagini di infanzia e adolescenza, le città di continuo mutate per la carriera del padre (Conegliano, Cremona, Idria, Reggio Emilia), le prime letture decisive, (tra Salgari e i poemi omerici emblematizzati dallo scudo di Ettore, l’eroe più buono e umano), infine le amicizie e i primi turbamenti ancora incogniti a sé stessi il cui suggello, qualcosa di premonitorio nella sostanza onirica, è l’espressione “Teta veleta”, struggente e ancora indecifrabile richiamo sessuale.
Due luoghi opposti e complementari, tuttavia, si spartiscono la prima giovinezza di Pasolini. L’uno è Bologna, che significa il Liceo classico “Galvani” (dove un giovane supplente, Antonio Rinaldi, legge in classe Rimbaud, poeta iniziatico, e dove frequenta gli amici di tutta una vita: Francesco Leonetti e Roberto Roversi) poi l’Università con il magistero di Carlo Calcaterra e specialmente dello storico dell’arte Roberto Longhi (il cui nome è sinonimo di Piero, Masaccio e Caravaggio, sue divinità figurative). Ma Bologna significa anche la passione divorante per il calcio, per i colori rossoblù di Schiavio e di Biavati che egli emula nel paso doble giocando interminabili partite sui prati di Caprara, dalle parti dell’Ospedale Maggiore.
L’altro polo, vera e propria culla, è Casarsa della Delizia nel Friuli materno, dolce paese di primule e di temporali che Pier Paolo raggiunge ogni anno d’estate e, negli anni della guerra, per un lungo sfollamento. Qui, nella frazione di Versuta, organizza una scuoletta per i figli dei contadini coadiuvato dall’amica bolognese Giovanna Bemporad che traduce Saffo in versi sublimi; qui matura il suo antifascismo e prende a scrivere dei versi in una lingua (il friulano “di qua dal Tagliamento”, con dolci ibridazioni venete) che rimane solamente sua e si irradia nelle “Poesie a Casarsa”, prima stella fissa di una costellazione poetica e testuale che non avrà pari nel Novecento.
È a Casarsa, piccola patria elettiva, che un trauma mette fine alla sua prima giovinezza per immetterla nella maniera più crudele all’età adulta: la notizia della morte del fratello Guido, partigiano della Brigata Osoppo, liquidato negli ultimi giorni della guerra civile non dai fascisti, ma da comunisti filojugoslavi. La sua morte duplica oltretutto quella dell’amico bolognese più caro, Ermes Parini detto Paria, caduto in Russia nella spaventosa ritirata dell’Armir.
Le ultime immagini di Pasolini disegnate da Gianluca Costantini, e con esse le parole di Elettra Stamboulis, hanno ormai lo stesso colore degli spettri, ne ribadiscono la natura anfibia dove chi è morto (pari allo spettro di Ettore nel libro dell’Eneide) si rivolge a chi è rimasto e gli si affida, designandolo suo erede.
Segno che il romanzo di formazione di Pier Paolo si è atrocemente compiuto e che per lui, davvero, è finita l’età dell’innocenza.