Lavorava come una schiava, servendo all’interno di un bar per 18 ore al giorno, senza riposo settimanale. Questa la condizione in cui era tenuta dalla titolare dell’attività una donna in profondo stato di “inferiorità psichica” e in condizione di fragilità aggravata dall’”assenza di alternative esistenziali validamente percorribili”. La vittima era costretta a dormire su un divano nella cucina dello stesso locale e sorvegliata 24 ore su 24 da una telecamera. Il tutto senza contratto di assunzione e senza stipendio, perché la donna risultava, sulla carta, amministratore della ditta. Sulla vicenda, che ha dell’incredibile, indaga la Procura distrettuale dell’Aquila per il reato di riduzione e mantenimento in schiavitù. L’indagine, cui dedica ampio spazio oggi il quotidiano Il Centro, è emersa da approfondimenti dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro condotti in un piccolo centro collinare della vasta provincia di Chieti.
Ideatrice di questo “sistema” una 43enne, titolare dell’attività commerciale, che ha messo in piedi un cado di sfruttamento assoluto, metodico. La Procura, che ha formalizzato l’accusa nei suoi confronti, ha disposto un accertamento irripetibile sul materiale informatico sequestrato durante le perquisizioni. Tre telefoni cellulari che il consulente del pubblico ministero dovrà esaminare per cercare le prove della sorveglianza da remoto. Le indagini puntano anche a cercare conferme degli inganni escogitati per trattenere le retribuzioni spettanti alla barista, che cominciava a lavorare alle sette del mattino per staccare alle 22, ma spesso anche a mezzanotte. Alla vittima era stato fornito un cellulare idoneo soltanto alla ricezione delle chiamate.
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