Enrico Ruggeri: “La Caverna di Platone è un viaggio tra musica e riflessione”

Al contrario di quegli eroi del cinema muto spazzati via dal futuro a cui dedica l’introduzione del suo ultimo album “La caverna di Platone”, Enrico Ruggeri continua non sentirsi una “stella incenerita dal tempo”, ma un angolo acuto del pop italiano, come conferma nello studio di “Soundcheck”, il format disponibile pure sul web e sui social del nostro giornale, nell’attesa di tornare sulla strada col tour al via il primo aprile dai Magazzini Generali di Milano.

Perché “La caverna di Platone”?

“È una canzone d’amore, o, meglio, sulle illusioni dell’amore. Una delle ultime che ho composto. L’album avrebbe dovuto intitolarsi ‘Arrivederci addio’ ma per fortuna ho cambiato idea perché si sarebbe prestato a domande del tipo: allora smetti? non fai più dischi? ti prepari a quattro anni di tour d’addio? eccetera, eccetera. Per cui meglio così”.

Cosa c’è dietro l’allegoria del filosofo ateniese?

“In realtà nella canzone il mito della caverna di Platone viene solo sfiorato. Questa figurazione delle persone prigioniere nella roccia che vivono nelle proiezioni di una realtà immaginata convinte sia vera al punto da provare, una volta fuori, il desiderio di tornare nell’oscurità per vincere il disagio che gli provoca la vita vera l’ho trovata, però, come un bell’assist per raccontare i nostri tempi”.

“La bambina di Gorla” è una canzone che ricorda i bombardamenti alleati su Milano del ’44

“Mia madre insegnava tre giorni nella scuola elementare ‘Francesco Crispi’ di Gorla e tre in un’altra. A Gorla andava il lunedì, martedì e mercoledì. Quel 20 ottobre costato la vita a 184 bambini e 19 docenti era un venerdì. Sono cresciuto coi racconti di mia madre su colleghe e allievi rimasti sotto alle macerie. Un episodio di cui si è sempre parlato poco perché contrasta con l’immagine delli americani liberatori, dispensatori di cioccolato e caramelle. Cosa vera, ma ad un prezzo e con dei sistemi talora opinabili”.

Il mondo è dei vincitori

“Sto con Bowie quando dice ‘I’m afraid of the americans’ perché m’inquieta un po’ un popolo che nel proprio vocabolario non contemplata la frase: scusate, ci siamo sbagliati. Vedi il caso di Gorla o, più di recente, della funivia del Cermis, tanto per fare un paio di esempi”.

Oltre a condurre su RaiDue del programma “Gli occhi del musicista”, l’anno scorso ha dato alle stampe l’autobiografia “40 Vite (senza fermarmi mai)”. La quarantunesima quale potrebbe essere?

“Al di là della cautela che a questa età è d’obbligo, comincio chiedo se oggi, nel mondo della musica liquida, lavorare tre anni per produrre un album abbia ancora senso. Diciamo che nella mia vita i pianeti non si sono mai allineati sulle colonne sonore. Ne ho fatta solo una, molto bella, per il film di un regista albanese non distribuito in Italia e che quindi nessuno ha ascoltato”.

Sanremo quest’anno che impressione le ha fatto?

“So tutto del Festival senza averlo guardato. Le canzoni, infatti, me le sono andato ad ascoltare su RaiPlay mentre il resto l’ho appreso dai social. L’impressione è che sia diventato un tritacarne molto più che in passato, anche per la cattiveria del web che sembra riversarsi tutta in quella settimana. Di certo offre notevoli opportunità. Prendi uno come Lucio Corsi, che prima conoscevamo in trenta mentre oggi è sulla bocca di tutti. Quindi tutta quella potenza mediatica può essere utile, ma devi avere le spalle grosse. Sinceramente non so se oggi avrei voglia di tornarci e poi aprire un tablet pieno d’insulti”.

Negli anni scorsi lei aveva proposto al Festival “Dimentico”, una canzone sull’alzheimer, e Simone Cristicchi “Quando sarai piccola”. Entrambe scartate dalla precedente direzione artistica. Con la nuova lui ce l’ha fatta. Anche se poi vittima delle polemiche di cui sopra

“Credo che in molti non gli abbiano perdonato ‘Magazzino 18’ lo spettacolo teatrale sulle foibe e l’esodo dalmata (portato in scena però nel 2013, quindi prima anche del precedente Sanremo di Cristicchi, quello del 2019 – ndr). Temi particolari a Sanremo si sono sempre trattati. Nel 2002, ad esempio, ho portato ‘Primavera a Sarajevo’ sulla guerra nei Balcani e l’anno successivo, con Andrea Mirò, ‘Nessuno tocchi Caino’ sulla pena di morte. Mi presentai pure in sala stampa con un signore americano di nome Leroy Orange rimasto per 14 anni nel braccio della morte a causa di una serie di omicidi e poi graziato, pochi giorni prima del Festival, dal Governatore dell’Illinois perché innocente”.