Firenze – “La paranoia della sicurezza si è sdraiata al mio fianco per anni e non mi ha fatto dormire per notti intere. Se avessi ricevuto la telefonata che è toccata domenica mattina a madame Laurence des Cars, probabilmente non mi sarei alzato”. Antonio Natali ha lavorato agli Uffizi dal 1981 al 2016 e ne è stato direttore dal 2006 al 2015. Malgrado l’afflizione mondiale per la profanazione del tempio, e pur comprendendo quanto l’autostima dei francesi ne risenta, il furto al Louvre scatena in lui da ore risate irrefrenabili. Come un film con Luis de Funès. Come l’annuncio di un’invasione extraterrestre da parte di Orson Welles. E c’è quella canzone di Ivan Graziani, Monna Lisa, in sottofondo: “Sì, vorrei rubarla. E nasconderla in una cassa di patate”. Tutto questo mentre nella strofa successiva “il custode parigino ha la bocca piena di biglietti del museo”. E giustamente si lamenta. “Mi dica che non sto sognando”.

Non sta sognando. Per quello che si sa, sono entrati in pieno giorno al Louvre e in sette minuti hanno fatto razzia di gioielli imperiali di valore inestimabile. La colpisce la sproporzione fra l’entità del danno e la fuga in motorino?
“Sono qui che aspetto una smentita. I ladri travestiti da operai. I due scooter e il montacarichi. La corona dell’imperatrice Eugenia abbandonata per strada. Ma le sembra plausibile? Hanno scherzato, è troppo inverosimile. I francesi adorano prendersi gioco del resto del mondo”.
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“Penso a tutte le telefonate che mi arrivavano allora dal ministero: attiravano la mia attenzione sui grandi modelli stranieri, anche per quanto riguardava l’inviolabilità del luogo. E io pensavo che la provincia nel suo piccolo è sempre stata la parte migliore d’Italia, che solo i piccoli provinciali potevano pensare che Francia e Inghilterra potessero fare meglio. Pensavo anche che all’uscita dai nostri musei avrei voluto una macchina futurista in grado di misurare l’aumento di cultura rispetto all’entrata, non solo il denaro, perché i musei non sono solo macchine da soldi, zecche in cui si batte moneta. Ma stavo calmo. Poi oggi quattro disgraziati entrano al Louvre vestiti da operai e con il seghetto si portano via i gioielli imperiali. E io cado stecchito”.

Anche perché non parliamo di un museo dell’arte rupestre. Che cosa è il Louvre per lei?
“Il museo. La Francia ha puntato tanto, se non tutto, su quella piramide. Il loro nazionalismo non fa sconti e lì ha la massima espressione. Sacralità dell’arte allo stato puro. E la vigilanza? Mi dicono che la polizia cercava di entrare mentre la gente non riusciva a uscire. E non mi rassegno a quella visione. Che dire: applauso ai ladri”.
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Lei ha vissuto per anni nel terrore.
“Ammetto che facevo fatica ad addormentarmi. Quando ero direttore agli Uffizi mi chiudevo a chiave nei bagni con la sensazione di essere seguito, inevitabile quando prendi coscienza del patrimonio che devi tutelare. Rifuggivo dai feticci, se potevo dirottare i turisti dalle stanze di Leonardo e Botticelli lo facevo volentieri perché la grandezza della cultura italiana è il suo essere diffusa. Però pensavo anche a quanti imbecilli ci sono in giro, per giunta fortunati come i francesi al Louvre. Basta un niente, un attimo di distrazione. Malgrado i vetri antisfondamento, malgrado uno si preoccupi anche degli interstizi”.

Per il direttore del Louvre è un fallimento personale?
“No, ma insomma. È una barzelletta, lo slittamento nel ruolo di capocomico. A Notre Dame ci fu disattenzione, qui come chiamarla? È una grande parodia della grandeur con le motoseghe, però non voglio infierire”.