Roma, 23 ottobre 2025 – Ho perso il conto di quante volte, in questi ultimi mesi, l’inchiesta su Garlasco sia stata arricchita – o forse appesantita – dal nome di un nuovo supertestimone. Ogni volta, la stessa dinamica: una voce che riemerge dal passato, una certezza proclamata, una verità che promette di riscrivere tutto. L’ultimo, in ordine di tempo, sostiene che lo scontrino del parcheggio di Vigevano non appartenga ad Andrea Sempio. E quindi non sia il suo alibi.

E allora la domanda è inevitabile: come fa a saperlo? Perché la memoria, da sola, non basta. Serve un riscontro oggettivo e verificabile altrimenti restiamo nel territorio delle suggestioni, non in quello della portata probatoria. La memoria non è una fotografia. È una costruzione narrativa che si deforma a ogni passaggio. Dopo 24 ore la traccia mnestica ha già subito un’alterazione, immaginiamoci dopo 18 anni.
Il ricordo si nutre di racconti, di immagini viste in tv, di frammenti di conversazioni, di emozioni che si sovrappongono ai fatti. Non si mette in discussione la credibilità personale, ma l’attendibilità psicologica del teste, anche in buona fede.
In pratica, potremmo avere a che fare con una forma di mitomania sociale. Chi si inserisce in un caso come Garlasco non vuole solo raccontare: vuole appartenere alla storia. E allora la memoria si gonfia, la convinzione cresce, il racconto prende corpo.
In gergo tecnico, si chiama eccitazione sociale: quella scarica che attraversa chi si sente parte di qualcosa che il Paese intero continua a osservare. Eppure, mentre l’opinione pubblica si divide su questa ennesima rivelazione, c’è un dettaglio comportamentale che merita attenzione. Durante una delle ultime perquisizioni, nella casa della famiglia Sempio, sono stati ritrovati bigliettini e appunti risalenti all’epoca del delitto e alle prime indagini.
Nulla che valga come prova schiacciante, ma abbastanza per raccontare un tratto psicologico: la tendenza dei Sempio a trattenere, ad accumulare oggetti legati al delitto, come se conservare il materiale servisse a trattenere anche il tempo, la presenza, la storia. Un modo per non lasciar andare, per restare ancorati a un evento che ha definito tutto.
È la memoria che non dimentica, ma non per virtù. Per attaccamento. E questo, probabilmente, spiega anche perché abbiano conservato quello scontrino: non per calcolo, ma per un riflesso umano, istintivo, quasi protettivo. Da un lato, dunque, chi riemerge proclamando una nuova verità; dall’altro, chi trattiene gli oggetti come reliquie di una memoria che non riesce a chiudersi.