Predator, sangue e caccia aliena sotto il marchio Disney: un matrimonio impossibile

Predator: Badlands prometteva un ritorno alle origini: deserto, caccia spietata, brutalità da survival-movie. Ma il film arriva in sala sotto un proprietario ingombrante: Disney, che da anni tende a smussare gli angoli più estremi dei franchise acquisiti. Il risultato è un’opera che prova a essere feroce e spettacolare, ma che spesso evita di mostrare realmente ciò che dovrebbe definire un Predator. L’effetto? Una caccia più elegante che cruenta, più epica che brutale, e la fanbase manifesta il proprio disappunto.

Il ritorno del cacciatore, ma coi guanti di velluto

Sulla carta, Badlands doveva riportare la saga alle sue radici. Non città futuristiche, non eserciti tecnologici: solo l’essere umano e la creatura, in un ambiente selvaggio dove l’uomo torna preda. Le atmosfere ci sono: la tensione funziona, la regia costruisce bene l’inseguimento, la natura è protagonista.
Il problema è che Predator non è mai stato una saga “per tutti”. La brutalità è parte della sua identità, e in Badlands sembra che qualcosa tenga sempre il film un passo indietro: la macchina da presa suggerisce ciò che non mostra, il sangue c’è ma senza esagerare, la caccia è intensa ma raramente davvero disturbante. È come se il marchio spingesse verso un intrattenimento ad ampio pubblico, trasformando un mostro crudele in un antagonista quasi “presentabile”.

L’effetto Disney: violenza sì, ma con moderazione

Non sarebbe la prima volta che Disney addolcisce un brand nato con altre caratteristiche. È accaduto con Star Wars, dove il tono si è spostato verso un’epica più family friendly, è accaduto con i film Marvel, che pur parlando di battaglie cosmiche raramente osano nella violenza visiva, è accaduto con Alien, un’altra saga acquisita da Disney, da tempo procede tra annunci e progetti mai davvero radicali. Tante idee, ma tutte calibrate per non spaventare il pubblico più ampio, come se la produzione avesse paura di tornare all’horror puro dei primi capitoli.
Badlands sembra seguire la stessa direzione. Il risultato è un film che punta a intrattenere, che costruisce un’estetica epica e quasi western, ma che rinuncia a una parte della sua identità primordiale. Là dove il Predator di Schwarzenegger era brutalità nuda e cruda, qui diventa un cattivo da blockbuster, decisamente meno feroce di quanto il suo mito suggerisca.

Un compromesso che divide: evoluzione o addomesticamento?

Da un certo punto di vista, non è una scelta assurda: portare Predator nel linguaggio dei blockbuster moderni significa aprire la saga a un pubblico più ampio, renderla un prodotto commerciale più sicuro. Ma chi è cresciuto con la creatura di McTiernan sa che Predator non è mai stato rassicurante. 
Badlands prova a richiamare quell’immaginario, ma si ferma prima del passo decisivo. È un Predator “educato”: più spettacolare che estremo, più estetico che cruente.
Funziona come film d’azione? Sì. Funziona come Predator? No.
È qui che nasce il “matrimonio impossibile”: la saga prova a essere ciò che è sempre stata, ma lo fa dentro un sistema che tende all’addomesticamento. E quando la caccia si fa elegante, e abbandona il fango originale e primordiale, una parte del pubblico sente che qualcosa inevitabilmente è andato perduto.