L’Antico Egitto e l’idea di eternità, in mostra i “Tesori dei Faraoni”

Roma, 24 ottobre 2025 – Psusennes I governò l’Egitto per quasi cinquant’anni, fra il 1047 e il 1001 a. C., tre millenni fa: il suo regno fu uno dei più lunghi e potenti della XXI dinastia e la sua tomba – ritrovata intatta nel 1939 a Tanis – era colma di tesori, quasi come quella di Tutankhamon. Splendore, meraviglia e ricchezza sono abbaglianti nel corredo del faraone con il suo celebre collare, sette fili di oltre seimila dischetti d’oro, con lapislazzuli, corniola e feldspato: è considerato il gioiello più pesante giunto fino a noi attraverso i secoli ed è uno dei 130 capolavori d’arte dell’Antico Egitto arrivati eccezionalmente a Roma dal Museo Egizio del Cairo e dal Museo di Luxor per la mostra “Tesori dei Faraoni” che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale, dove si potrà visitare fino al 3 maggio 2026.

Un’esposizione, ma prima di tutto un evento, “un esempio concreto di cooperazione fra Italia ed Egitto fondata su conoscenza, formazione e valorizzazione del patrimonio condiviso, che dialoga con gli obiettivi del Piano Mattei per l’Africa”, sottolinea Alessandro Giuli, ministro della Cultura. Realizzata in stretta collaborazione con le autorità egiziane, grazie a un’importante tessitura diplomatica, la mostra (che ha richiesto un investimento di tre milioni e mezzo) si annuncia come un blockbuster: sono già 40mila le prenotazioni e si prevedono almeno 500mila visitatori.

“Abbiamo voluto offrirvi un viaggio nel tempo e nella civiltà egizia attraverso le sue forme più alte e insieme più intime: potere, fede, vita quotidiana”, dice il curatore Tarek El Awady, già direttore del Museo Egizio del Cairo. Un viaggio dove sempre si intrecciano la vita e la morte, il mondo terreno e l’oltretomba. Un viaggio trapuntato d’oro, metallo incorruttibile che era associato appunto all’immortalità e che manda bagliori dal coperchio del sarcofago dell’enigmatica regina Anhotep II, “Figlia del Re” e “Sorella del Re”, e dalla sua preziosissima collana delle Mosche d’oro, alta onorificenza militare per il valore in battaglia.

Quattro sale sono dedicate alla vita e alla morte che gli Egizi vedevano come un ciclo eterno, per rinascere alla luce di Ra: spicca in questa sezione il monumentale sarcofago di Tuya, somma sacerdotessa, madre della regina Tiye, attorniato dalle statuette degli ushabti, i servitori funebri che avevano il compito di sostituirsi al defunto svolgendo i lavori a lui affidati nell’aldilà. “Il più grande monumento mai costruito dall’Egitto non fu una piramide o un tempio, ma l’idea stessa di eternità”, rimarca l’archeologo Zahi Hawass.

I sovrani erano “shemsu Hor”, ovvero “seguaci di Horus”: “L’istituzione stessa della regalità era strettamente legata a quella di un popolo persuaso della sua sacralità”, aggiunge il curatore. Nel percorso di mostra si riallacciano i fili di questo ordine sociale e si ricostruiscono anche i ritmi e i tempi della vita quotidiana: li ritroviamo negli straordinari reperti della “Città d’Oro” di Amenofi III che Zahi Hawass ha scoperto appena quattro anni fa a Luxor.

A chiudere la mostra è il mistero della regalità divina che promana dalla statua inginocchiata della regina Hatshepsut (che nel XV secolo a. C. organizzò una spedizione nella misteriosa Terra di Punt per importare incenso e mirra), dalla splendida Triade di Micerino, Faraone dell’Antico Regno, risalente a quasi 4500 anni fa, e dall’incantevole maschera funeraria di Amenemope, figlio di Psunesses I, ancora una volta infusa nell’oro. E in un ideale legame fra l’Egitto e l’Italia, ecco la Mensa Isiaca, concessa dal Museo Egizio di Torino: una tavola bronzea che proviene dal tempio di Iside al Campo Marzio, attestato a Roma già dal I secolo a. C., “e che forse venne ordinata da Livia, moglie dell’imperatore Augusto”, sottolinea Christian Greco, direttore del museo torinese. La testimonianza suprema di un dialogo (eterno) fra le grandi civiltà del Mediterraneo. Che ancora si parlano e ci parlano.