Per chi tiene la contabilità del dolore, i morti e i feriti sarebbero in totale circa mezzo milione. Troppi. Come i giorni di guerra: 1321. Tanti. Forse per questo capita di dimenticarsi di quello che sta accadendo in Ucraina: una guerra. In Europa. Forse perché altri dolori sembrano più acuti, altri morti più ingiusti.
Poi arriva Putin, e ci riporta alla realtà di un Paese che continua a essere quotidianamente violentato. Sempre di più, anzi. Perché mentre i combattimenti sembrano fermi al fronte, le bombe piovono sulle città, anche le più lontane. Sui civili. E sui volontari che danno una mano a quella gente. Come gli italiani sfiorati dai raid russi, 110 pacifisti, una delle tante, tantissime nostre missioni umanitarie in Ucraina.

Siccome non fanno comunicati, sappiamo che ci sono solo quando capita che rischino la vita. O che la rischino più del solito. È una flotilla silenziosa e imponente, come sono imponenti i numeri di questo conflitto, i milioni di ucraini (tre solo nella vicina Polonia) che si sono auto deportati per avere un futuro, per darlo ai loro figli.
Per Gaza c’è speranza: si tratta. Bene. Per Kiev, no. Inevitabile, visto che per trattare bisogna essere in due, e lo zar di Mosca sembra meno disponibile a sedersi a un tavolo dei terroristi di Hamas. Avviato a chiusura un capitolo, è possibile che possa riaprirsi quello ucraino, altrettanto complicato e intriso di sangue.

L’Italia non ha mai chiuso, per quanto è nelle sue facoltà, né l’uno, né l’altro. I nostri sforzi per la pace sono continui, diffusi. Riconosciuti. I nostri aiuti arrivano ogni giorno, massicci, dove c’è guerra e sofferenza. E anche la nostra gente. Si potrebbe fare di più? Possibile. Ma quei 110 volontari sfiorati dalle bombe russe ci ricordano che in quella fetta d’Europa l’Italia c’è, in pratica da 1321 giorni. Non solo come equipaggio di una flotilla. Ma come un’inesauribile Armada.