Non sarebbero potuti tornare con un album diverso. I Negrita lo chiariscono subito nel salotto di Soundcheck, il format musicale disponibile sul sito web e sui social del nostro giornale, nell’attesa di salire domenica prossima sul palco dell’Alcatraz, e il 18 aprile su quello del Teatro Clerici di Brescia, per dare una valenza live alla loro nuova fatica discografica “Canzoni per anni spietati”, nove brani che hanno nell’urgenza il loro tratto comune.
Una specie di “concept letterario” lo definisce il cantante Paolo “Pau” Bruni, in studio con Enrico “Drigo” Salvi e Cesare “Mac” Petricich rispettivamente chitarra solista e chitarra ritmica della band aretina. “Sono 35 minuti di musica che si appartengono tutti” spiega Petricich. “E forse è per questo che abbiamo scritto tutto in un tempo molto breve”.
Un album di reazione alla ferocia dei tempi?
Salvi: “In pandemia ci siamo rifiutati di scrivere, perché il trauma era talmente profondo e collettivo che non ce la sentivamo di ricercare una pseudo-normalità. Così, quando ci siamo rimessi al lavoro, non ci riconoscendoci nella musica che è nell’aria, abbiamo realizzato un album che insegue la scuola dei grandi maestri, in primis Bob Dylan”.
Effettivamente il disco si apre con quella “Nel blu (Lettera ai padroni della terra)” che è un po’ la vostra “Masters of war”
Bruni: “L’ispirazione è dichiaratamente quella. Ovvero il Dylan ‘hobo’, folk, ancora lontano dalla svolta elettrica del Festival di Newport del ‘65, capace di raccontare grandi storie con la sola forza della voce e della chitarra acustica. ‘Masters of war’ è uno dei più grandi manifesti contro la guerra mai scritti, assolutamente necessario, quindi, in un momento come questo”.
Al vate di Duluth vi rifate pure con “Song to Dylan” legata, almeno nel titolo, alla “Song to Woody” scritta al tempo dallo stesso Dylan per il maestro Woody Guthrie
Bruni: “Guthrie prese un canto popolare e, toccato dai racconti di una vecchia strage di minatori nel Michigan, ci scrisse sopra ‘1913 Massacre’. Dylan, colpito dall’impegno civile del brano, ci fece a una canzone, dedicandola al suo autore. Noi abbia voluto proseguire questo gioco, anche perché in tema di lotte sociali, diritti dei lavoratori, soprattutto qui in Occidente c’è un sentire condiviso”.
Salvi: “Il bello è che, trattandosi di melodia popolare, Dylan non pagò i diritti a Guthrie mentre ora la casa discografica c’informa che lui li vuole da noi”.
Così va il mondo. Dylaniana e Dylaniata pure l’unica cover del disco, quella “Viva l’Italia” di Francesco De Gregori, che è il padre nobile della nostra canzone d’autore più vicino ai mondi di Mr. Tambourine
Salvi: “Con De Gregori abbiamo eseguito ‘Banana Republic’ davanti ai microfoni di Radio 2, esperienza straordinaria visto che viviamo tutti e tre nella totale ammirazione del Principe. Che lui conoscesse la nostra carriera al punto da coinvolgerci in un’esperienza del genere è stato bellissimo. E poi ‘Viva l’Italia’ è una canzone che ora ti dà uno schiaffo e ora una carezza, proprio come la straordinaria poetica del suo autore”.
La canzone cita l’Italia del 12 dicembre. Quella di Piazza Fontana e dei trecentomila in piazza per dire no alla strategia del terrore. A vostro avviso, il Paese ha ancora quella reattività?
Bruni: “Secondo me, no. C’è ancora chi s’indigna, ma solo sui social. Non si scende più in strada a far sentire la propria voce e questo è paradossale in un’epoca di iperinformazione come quella attuale. Colpa dell’individualismo imperante che a 57 anni mi rende deluso e impotente, soprattutto come genitore”.
Petricich: “Sei canzoni su nove. Amalgamate col resto del repertorio, perché certi temi li affrontiamo da sempre e ci sono diversi brani del passato che avrebbero potuto trovare posto in questo album”.