Roma, 6 agosto 2025 – Il 6 agosto 1945, alle 8:15 del mattino, un bombardiere statunitense sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima. Tre giorni dopo, il 9 agosto, toccò a Nagasaki. Le due esplosioni provocarono la morte immediata di decine di migliaia di persone e, nei mesi e negli anni successivi, causarono danni irreparabili alla salute di centinaia di migliaia di civili, con effetti che si estesero per generazioni.
Sono trascorsi 80 anni da allora: il 6 agosto 2025 porta con sé la memoria di quel lontano 1945 ancora così dolorosamente vivo, nella memoria e sulla pelle. L’anniversario si trasforma in una profonda occasione per meditare sul dramma vissuto e sul futuro dell’umanità.

Chi lanciò la bomba?
Il bombardiere che colpì Hiroshima era un B-29 chiamato Enola Gay, pilotato dal colonnello Paul W. Tibbets. La bomba, soprannominata ‘Little Boy’, utilizzava uranio ed esplose con una potenza equivalente a circa 15.000 tonnellate di tritolo.
Il colonnello Paul W. Tibbets scelse personalmente il nome ‘Enola Gay’ per il suo aereo, ispirandosi al nome completo della madre, Enola Gay Tibbets. Il nome venne dipinto sulla fusoliera del B-29 alla vigilia della missione su Hiroshima. Secondo alcune testimonianze, Tibbets lo fece di nascosto, senza comunicarlo preventivamente ai superiori.
Il contrasto tra il nome femminile – dolce, domestico, legato alla figura materna – e la devastazione causata dalla bomba Little Boy nel tempo ha assunto un significato simbolico potente, spesso sottolineato nei documentari e nei racconti storici. L’aereo è oggi esposto nella Steven F. Udvar-Hazy Center, che fa parte dello Smithsonian National Air and Space Museum, a Chantilly, Virginia.
Tre giorni dopo, un secondo B-29, il Bockscar, pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney, sganciò su Nagasaki una bomba al plutonio chiamata “Fat Man”, ancora più potente. Le due missioni furono approvate dal presidente statunitense Harry Truman nel contesto della guerra nel Pacifico, con l’obiettivo dichiarato di forzare la resa del Giappone. Il 15 agosto 1945, l’imperatore Hirohito annunciò la capitolazione del Paese.
Le città ferite e il lungo cammino della memoria
Hiroshima e Nagasaki vennero quasi completamente rase al suolo. La potenza delle esplosioni distrusse case, ospedali, scuole, interi quartieri. Migliaia di persone morirono all’istante, altre nei giorni successivi per le ustioni e le radiazioni.
Negli anni, le due città sono diventate simboli mondiali della pace e della ricostruzione. I parchi della memoria, i musei e le testimonianze dei sopravvissuti – gli hibakusha – rappresentano oggi luoghi di consapevolezza, dove il dolore viene trasformato in monito e speranza.

La resilienza della natura: il gingko biloba sopravvissuto
Non solo esseri umani, ma anche la natura fu colpita in modo devastante. Tuttavia, tra le rovine di Hiroshima, si racconta la storia sorprendente di un albero di gingko biloba che riuscì a sopravvivere all’esplosione.
L’albero si trovava nel giardino del tempio Hosen-ji, a meno di 1.000 metri dall’epicentro. Nonostante fosse carbonizzato, tornò a germogliare: il gingko biloba di Hiroshim è vivo, simbolo di resilienza e rigenerazione, silenzioso testimone della forza della natura.
Le testimonianze degli hibakusha
Tra le curiosità legate ai difficili giorni fra il 6 e il 9 agosto 1945 c’è la storia del piccolo gruppo di sopravvissuti che riuscì a salvarsi da entrambe le esplosioni, perché si trovava a Hiroshima per lavoro e tornò a Nagasaki pochi giorni dopo.
Uno di loro, Tsutomu Yamaguchi, è stato riconosciuto ufficialmente come “doppio hibakusha” e ha trascorso la vita raccontando la sua esperienza per promuovere il disarmo nucleare.
Un altro esempio legato alla memoria e alla resilienza riguarda un luogo: il Genbaku Dome, l’unico edificio rimasto in piedi vicino all’epicentro di Hiroshima, oggi patrimonio Unesco.
Mille gru di carta per la pace
Tra le storie più intense c’è quella di Sadako Sasaki, una bambina che aveva due anni quando la bomba atomica colpì Hiroshima. Dieci anni dopo, nel 1955, Sadako si ammalò di leucemia, una delle tante conseguenze delle radiazioni assorbite. Ricoverata in ospedale, la ragazzina iniziò a creare gru di origami. Una leggenda giapponese, infatti, chiunque costruisse mille gru di carta, potrebbe veder realizzato il suo desiderio.
Il sogno di Sadako era guarire, ma anche che non ci fossero più guerre nel mondo. Morì, purtroppo, nell’ottobre successivo. Oggi, una statua nel Parco della Pace di Hiroshima raffigura Sadako con una gru in mano. Ogni anno da tutto il mondo giungono migliaia di origami colorati: un gesto semplice, divenuto simbolo universale di pace e memoria.
Secondo alcune fonti Sadako non riuscì a completare le mille gru e i suoi amici continuarono l’opera in suo nome. Altri, in particolare la famiglia di Sadako e suo fratello Masahiro Sasaki, hanno più volte raccontato che Sadako ne fece ben oltre mille, continuando a piegarle finché fu fisicamente possibile, anche con pezzi minuscoli di carta da medicina e involucri di caramelle. Entrambe le versioni, oggi, convivono, in grado di evocare resistenza e speranza.
L’anniversario di Hiroshima e Nagasaki non è solo una data del calendario, bensì una riflessione sulla responsabilità storica e una domanda, ancora viva e in discussione costante, sul nostro futuro. Quale mondo vogliamo immaginare? I sopravvissuti che ancora oggi parlano nelle scuole e nei convegni ricordano che il pericolo nucleare è tutt’altro che passato. Le tensioni internazionali, i test atomici e la corsa agli armamenti rendono questa memoria ancora necessaria. Ricordare significa agire per un domani più consapevole, in cui andare verso una cultura della pace con ancora più forza e coscienza.