In carcere è l’inferno, la voce di Alemanno, la denuncia di Lo Piccolo: nulla cambia, sempre peggio

Dopo la recente denuncia del presidente della repubblica Sergio Mattarella sulle drammatiche condizioni della vita in carcere in Italia, ho intervistato il giornalista Francesco Lo Piccolo, fondatore e presidente dell’associazione e del periodico che hanno entrambe il nome Voci di dentro, dove per dentro di intende dentro le carceri. 

Lo Piccolo vanta una lunga carriera, iniziata prima degli anni Ottanta a Il Mattino di Padova quando l’editore era il fondatore Giorgio Mondadori. Passato al Messaggero ha lavorato nelle redazioni di Roma, Milano, Chieti, Pescara.

È stato anche inviato  in teatri di guerra, in Croazia, nella ex Iugoslavia, in Romania e in Eritrea. Nel 2009, due anni prima di andare in pensione nel 2011 e dopo essersi laureato in sociologia e criminologia, ha fondato l’associazione onlus Voci di dentro, che edita la rivista omonima, diretta dallo stesso Lo Piccolo. Quello che è nato come giornalino delle carceri è diventato un trimestrale  che si occupa di carcere, giustizia, diritti.

LEdizione cartacea di 72 pagine stampate in 2 mila copie distribuite in tutta Italia ed edizione in rete, ospita contributi da tutte le carceri d’Italia per dare voce a coloro che sono in disagio sociale ed economico, a coloro che non hanno rappresentanza, e per raccontare cosa realmente è e cosa fa l’istituzione penitenziaria. Vi scrivono oltre che detenuti anche giornalisti, scrittori, esperti, professori universitari, sociologi, avvocati e altro personale, tutti che lavorano o hanno lavorato nell’amministrazione penitenziaria.   

DOMANDA – Il presidente della Repubblica quando a fine giugno ha ricevuto al Quirinale il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Stefano Carmine De Michele e una rappresentanza di agenti della polizia penitenziaria ha parlato con toni anche drammatici della situazione carceraria italiana.

La solita retorica che lascia il tempo che trova? Come quella sui morti sul lavoro che continuano ad abbondare nonostante discorsi, impegni, promesse e chiacchiere da tempo immemore? Già nel 2013 l’allora presidente Giorgio Napolitano aveva lanciato un allarme e invitato il parlamento a occuparsene e trovare delle soluzioni. Ma è successo poco o niente. 

RISPOSTA – La situazione delle carceri italiane, che da tutti e correttamente viene definita drammatica, è frutto di un problema strutturale e non risolvibile a meno che non si avvii un radicale cambiamento. Cambiamento culturale soprattutto. 

Quasi tutti i 200 istituti del nostro paese sono stati pensati o costruiti per contenere un numero complessivo massimo di 50 mila persone mentre come è ben noto i detenuti sono oggi 62 mila. Ma attenzione, quei 50 mila posti in realtà oggi sono ancora meno, almeno 4 mila sono le celle in ristrutturazione e non più agibili per vandalismi, usura, poca manutenzione, scarsa qualità dei materiali usati.

Due esempi a caso fanno subito capire la situazione: pensato per 450 persone oggi l’istituto di San Vittore contiene mille e cento persone; il carcere di Pescara costruito per 270 persone oggi ne ospita 401. 

D – Mi pare che non siamo messi bene neppure come direttori.

R – Vero, purtroppo. Pochi spazi, ma sono insufficienti anche i direttori: secondo le rilevazioni effettuate l’anno scorso da Antigone è stato accertato che in 48 istituti il direttore era incaricato a dirigere anche altri istituti. 

Scelte fatte spesso del Dipartimento dell’Amministrazione Carceraria (DAP),  fatte secondo criteri non del tutto chiari: ad esempio l’anno scorso la direttrice del carcere di Avellino con 600 detenuti dirigeva anche un altro istituto mentre avevano un direttore a tempo pieno la Casa Circondariale di Arezzo con appena 40 presenze, e la Casa di Reclusione di Alba con 43 persone detenute. 

Sì, è proprio il caso di dire che quando la politica parla di carceri o di incidenti sul lavoro fa solo chiacchiere perché del tutto incapace forse per volontà di vedere la realtà.

Un altro piccolo esempio: alcuni anni fa degli ispettori mandati dal Ministero per cercare di risolvere alcune criticità a Pescara, soprattutto il problema della mancanza di spazi, si misero a misurare l’altezza di una cella da terra al soffitto suggerendo di aggiungere un altro letto a castello.

D – Se non sbaglio i suicidi in carcere sono uno dei brutti record europei “conquistati” dall’Italia, esattamente come le morti sul lavoro. Può darci qualche cifra?

R – Secondo l’ultimo dato del Consiglio d’Europa, nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane era più del doppio della media europea: 15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 casi. In particolare dall’inizio dell’anno i suicidi sono stati 38 (dato al 30 giugno); 91, secondo i conteggi di Voci di dentro, quelli avvenuti nel 2024; 68 nel 2023; 86 nel 2022. Il 46 per cento delle persone che si sono uccise si trovavano in custodia cautelare in carcere, il più giovane aveva 20 anni; il più anziano 74 anni. Molti avevano già tentato il suicidio.

In un libro di Baccaro e Morelli dal titolo “Il carcere: del suicidio e di altre fughe” è scritto tra l’altro che il 28% dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni e il 34% entro il primo mese.

D – Mattarella nel discorso citato ha detto che la situazione carceraria va migliorata anche per rispetto alla Costituzione. Ma la realtà purtroppo è che l’intera situazione carceraria di fatto è INCOSTITUZIONALE, perché la Costituzione prescrive che “la pena deve essere rieducativa e non afflittiva”.

È chiaro che l’abbondanza di suicidi è una delle prove – purtroppo la più tragica – che la detenzione carceraria NON è una pena rieducativa, ma afflittiva. E pesantemente afflittiva.

R – Sì, il carcere è solo afflittività, solo punizione. È fuori dalla Costituzione, oltre che in violazione di tantissime Convenzioni o Regolamenti europei. Il carcere è tortura e violenza. In carcere si lotta per sopravvivere a livelli minimi. Il carcere è violenza non solo nei confronti dei detenuti, ma anche di chi ci lavora.

Anche gli agenti di polizia si uccidono. Lo racconto spesso, lo ridico qui: un ispettore mi raccontava che al termine di due o tre turni di seguito, prima di andare a casa si toglieva la divisa e indossava la tuta e si metteva a correre per qualche ora… chilometri su chilometri. Solo così, mi diceva, mi sentivo in grado di tornare da mia mogie e dai miei figli, solo così una volta liberata tutta la tensione e la sofferenza di quei tre turni potevo tornare una persona normale.

 La funzione rieducativa del carcere

In carcere è l’inferno, la voce di Alemanno, la denuncia di Lo Piccolo: nulla cambia, sempre peggio, nella foto Gianni Alemanno
In carcere è l’inferno, la voce di Alemanno, la denuncia di Lo Piccolo: nulla cambia, sempre peggio (Gianni Alemanno nella foto Ansa) – Blitz Quotidiano

D – Del resto che la situazione carceraria sia incostituzionale perché afflittiva e diseducativa Mattarella l’ha riconosciuto di fatto esplicitamente: “Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività, oltre a essere l’obiettivo di un impegno notoriamente, dichiaratamente costituzionale. I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine, né in luoghi senza speranza, ma devono essere effettivamente rivolti al recupero di chi ha sbagliato”.

R – Assolutamente incostituzionale, in piena illegalità. Scuola di malavita, concentramento in un unico luogo, piccolo e angusto, di tutte le contraddizioni della società: marginalità sociale, povertà, dipendenza da sostanze. Malati, giovani e anziani, tutti insieme senza alcuna strategia di cura e di aiuto.

Alessandro Margara, padre della riforma penitenziaria del 1985 (legge Gozzini) in un suo intervento nel  2009 diceva così: “C’era una volta un Ordinamento penitenziario che dava delle speranze di permessi di uscita, di misure alternative, ma anche questi spazi si sono sempre più ristretti – per leggi forcaiole e per magistrati condizionati dal clima sociale che le produce – e le speranze si sono trasformate in delusioni”.

Utile uno spaccato del carcere: il 44,25% delle persone detenute fa uso di sedativi o ipnotici, il 20,4% utilizza stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Si tratta di classi di farmaci con rilevanti effetti collaterali e che vengono spesso utilizzati al di fuori di un quadro diagnostico definito. Oltre il 13 per cento delle persone detenute presenta diagnosi psichiatriche gravi. 

Cito un passaggio dall’ultimo dossier di Antigone: “In un carcere di medie dimensioni, circa 300 persone, il medico psichiatra è presente per 21 ore a settimana (3 ore al giorno)”.

D – Mattarella ha indicato iniziative e cambiamenti ben precisi, cosa che in precedenza non ha mai fatto nessuno. Per esempio ha detto: “Penso alla grave insufficienza del numero degli educatori, al difficile accesso alle cure sanitarie dentro gli istituti, specialmente per detenuti affetti da problemi di salute mentale. Occorre che gli istituti di pena siano dotati di nuove e più adeguate professionalità”.

Parole che denunciano sia pure diplomaticamente l’inadeguatezza delle professionalità esistenti, create con criteri ormai superati. Lei cosa propone per tradurre in realtà questi stimoli al cambiamento?

R – La figura dell’educatore è fondamentale. È stata introdotta con la riforma del ’75 prevedendo un compito ben preciso: accompagnare il ristretto nel suo percorso di risocializzazione e di rieducazione, favorendo (dopo l’osservazione della personalità) l’accesso alle misure alternative. Ma anche altri i compiti di questa figura: progettare e organizzare le attività scolastiche, formative, sportive e ricreative. Erano previste 1400 persone per i detenuti dell’epoca che erano 30-35 mila. 

D – Altri tempi, si direbbe.

R – Purtroppo. Oggi i detenuti sono 62 mila (il doppio di quelli degli anni Settanta) e gli educatori sono un migliaio, molti dei quali pronti per la pensione.  E non sono più educatori: da alcuni anni sono diventati (promossi) funzionari giuridico pedagogici, ovvero coordinatori della rete interna ed esterna al carcere in modo da garantire una relazione con il territorio. Il risultato è che sono pochi e hanno più compiti, soprattutto più burocrazia. In media un educatore segue 60-65 detenuti. 

Ma, ripeto, è una media: nella Casa Circondariale di Busto Arsizio Antigone ha accertato che un educatore aveva in carico 145,67 detenuti e nella Casa Circondariale di Lecce, nonostante la presenza di tutti gli educatori previsti in pianta organica, ossia 11, ogni educatore aveva in carico 109,8 detenuti.

Ovvio che ci vuole più personale e più risorse… ma se le risorse se ne vanno solo in sicurezza allora siamo sempre punto e a capo. Insomma tanti propositi, li sento da anni.  Da anni sento chiacchiere.

 D – Il capo dello Stato ha detto chiaro e tondo che per le carceri “servono investimenti in modo di garantire un livello di vita dignitoso ai detenuti e al contempo migliori condizioni di lavoro che voi svolgete con scrupolo. Sono investimenti necessari e lungimiranti. È particolarmente importante che il sistema carcerario disponga delle risorse necessarie, umane e finanziarie, per assicurare a ogni detenuto un trattamento che si fondi su regole di custodia basate su valutazioni attuali, per ciascuno, con l’obiettivo per il futuro”.

Ma di tutto ciò non dovrebbe occuparsene il parlamento? Non dovrebbe essere il mondo politico a prendere l’iniziativa e approntare cambiamenti, miglioramenti e riforme? Spero di sbagliare, ma a me pare che in realtà l’intero mondo politico e sistema dei partiti a tutto ciò non pensa neanche da lontano.

R – Certo che servono investimenti, ma vanno fatti con la testa e non con i piedi. Oggi si parla di costruire nuove carceri e nuovi modelli abitativi … tipo container? Forse?  Una volta realizzati, dopo pochi anni saremo al punto di partenza. Tre miliardi e mezzo è il costo del sistema carcere in Italia, l’ottanta per cento se ne va nelle spese per la sicurezza; poco o niente per il personale educativo.

Due euro e mezzo è il costo che lo Stato spende ogni giorno per ogni detenuto per assicurare colazione, pranzo e cena. 

Poi quando il detenuto esce perché ha espiato la sua pena gli viene chiesto il conto per l’alloggio. Proprio così, 100 euro al mese per l’uso della cella. Circa 100 euro al mese che ogni detenuto deve all’Erario. Comunque è tutto vero, la politica è assente.

Parlare di carcere, di progetti per gli istituti penitenziari e di miglioramenti non porta voti. Al contrario, parlare di sicurezza, di nemici alle porte e dentro le carceri, complice una grossa fetta del sistema informativo, crea consenso e voti. Con questo governo e con i precedenti la logica resta questa.

La lettera di Alemanno

D – In questi giorni di grande caldo c’è gente che per le alte temperature muore letteralmente. In parlamento è stata letta una lettera di Gianni Alemanno, ex ministro ed ex sindaco di Roma in carcere a Rebibbia da inizio anno. Ecco alcuni stralci: “Qui si muore di caldo, ma la politica dorme con l’aria condizionata […..] La temperatura nelle celle di Rebibbia cresce salendo i piani del penitenziario, tanto che all’ultimo ci sono 10 gradi in più rispetto al piano terra, ma la politica dorme con l’aria condizionata. […..] Il  sovraffollamento e calura rendono le vita in carcere una tortura”.

R – Il carcere come ho già detto è diventato luogo di sofferenza e tortura. Ma non c’era bisogno che ce lo dicesse Alemanno. Voci di dentro e le tante altre associazioni che si occupano di diritti e giustizia, lo dicono e lo scrivono da anni.

E lo stesso lo scrivono nelle loro lettere i detenuti non eccellenti che riescono a superare la censura che vige sia negli istituti e sia nei media. Qualche giorno fa ho segnalato a un collega che scrive per un quotidiano nazionale alcuni episodi di censura messi in atto da alcuni direttori “in carriera” nei confronti dei giornali realizzati all’interno degli istituti (vicenda segnalata anche da Paolo Pagliaro durante la trasmissione Otto e mezzo). Vuole sapere che mi ha detto questo collega giornalista?  

D – Certo.

R – “Scusa Francesco, ma al mio giornale piace solo il gossip”. Per tornare a Alemanno è bene ricordare che il caldo non riguarda solo il G8 di Rebibbia. C’è ad esempio il G6, dove vivono come animali in gabbia gli “incollocabili”, persone malate che in carcere non ci dovrebbero stare. E c’è ancora il G12, il reparto oggetto della sentenza “Sulejmanovic contro Italia” che nel 2009 ha visto il nostro Paese condannato per trattamenti inumani e degradanti dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.

Da allora, al di là di Alemanno, non è cambiato nulla: le celle hanno sempre le stesse dimensioni e sono abitate ancora da sei persone in uno spazio che la CEDU ha ritenuto essere equivalente a tortura.  A Rebibbia come ovunque. E al di là di Alemanno è bene ricordare che l’invivibilità del carcere è frutto dei tanti politici che vorrebbero “buttare le chiavi”, invocando la “certezza della pena”.

 

 D – Se non ricordo male anni fa per impedire o almeno limitare gli episodi di violenze e abusi contro i detenuti è stata varata una legge che permette visite senza preavviso nelle carceri da parte di membri del parlamento. Questo strumento viene utilizzato? In modo frequente o raro?

R – Le visite agli istituti penitenziari sono disciplinate dall’art. 67 della legge sull’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), la stessa che ha introdotto la figura degli educatori. Prevede che determinate persone o categorie di persone, che esplicano funzioni o ricoprono cariche pubbliche di particolare rilievo, possano visitare gli istituti senza richiedere l’autorizzazione all’accesso. 

Riguarda il Presidente del Consiglio dei Ministri, il presidente della Corte costituzionale, i ministri, i giudici della Corte costituzionale, i Sottosegretari di Stato, i membri del Parlamento e i componenti del CSM. Oltre a loro anche i consiglieri regionali, il prefetto e il questore della provincia; il medico provinciale… 

Un provvedimento quanto mai giusto con l’obiettivo di permettere la verifica delle condizioni di vita dei detenuti, compresi quelli in isolamento. In difesa dei diritti.

Mi chiede se viene utilizzato? Per quanto ho visto in questi anni succede poche volte e quando succede è per verificare le condizioni di arrestati “eccellenti” e che fanno notizia. In realtà è una passerella che serve al politico per finire sulla stampa con tanto di foto.

 

D – Lei cosa proporrebbe per realizzare un efficace controllo da parte esterna per controllare che nelle carceri non ci siano abusi? In tutto il mondo la condizione carceraria è orribile, fonte e sinonimo di abusi anche gravissimi. Compresi gli abusi sessuali.

R – Il carcere dovrebbe essere trasparente, un presidio di democrazia, non un luogo dispotico e chiuso: il mondo di fuori (insegnanti, medici, esperti, titolari di imprese) devono entrare dentro e le persone dentro devono poter uscire. Il controllo non si fa proibendo, non funziona così; la pedagogia nera (teoria di fine 900 della sociologa Katharina Rutschky secondo cui la violenza fisica e psichica sono il cuore dell’educazione) non ha mai funzionato: i metodi che si fondano su coercizione, repressione e punizione sono strumenti di aggressione che reiterano il male.

D – A proposito di abusi sessuali: qual è la situazione italiana? A suo tempo nella redazione milanese de L’Espresso, della quale facevo parte, sapevamo di abusi nei confronti di detenute, ma non c’erano prove da poter esibire senza timore di rappresaglia verso le detenute in questione. Peggio ancora per gli abusi nei confronti di detenuti maschi giovani, dei quali avevo notizia a Padova fin dalla fine degli anni ’60.

R – Gli abusi sessuali oggi sono rari, ma ci sono; è di aprile di quest’anno la condanna di un 55enne colpevole di molestie sessuali nei confronti di un giovane detenuto nel carcere di Brissogne in Valle d’Aosta che aveva avuto la forza di raccontare tutto alla madre e alla psicologa.

Per non parlare della violenza subita dal carcerato diciottenne a Genova, che ha provocato una rivolta durata tre giorni.

E l’altro ieri nell’Istituto penale per minorenni di Nisida un agente scelto della Polizia penitenziaria è stato indagato per aver compiuto atti sessuali su un giovane detenuto. La violenza sessuale in carcere del resto l’ha ben raccontata nel suo “Uomini come bestie, il medico degli ultimi”, Francesco Ceraudo, pioniere della Medicina Penitenziaria Italiana, che per 40 anni ha diretto il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa.

D – Poiché i detenuti sono in custodia assoluta e totale dello Stato è chiaro che la loro condizione, qualunque essa sia, è responsabilità dello stesso Stato. Anche i suicidi dunque sono responsabilità dello Stato. Lo Stato prevede un risarcimento alle famiglie dei detenuti suicidi? Ci sono famiglie di detenuti suicidi che hanno fatto causa allo Stato per ottenere un risarcimento per la perdita del loro congiunto avvenuta sotto la responsabilità dello stesso Stato?

R – Pur considerando che i suicidi sono fatti che attengono a problematiche personali e a disagi di varia natura, quando avvengono all’interno di una istituzione dello Stato, mentre il suicida è nelle mani dello Stato, allora per me non si possono più definire suicidi.  Troppo comodo deresponsabilizzarsi scaricando il problema alla “vittima”. Il carcere è invivibile, pura sofferenza. 

Oggi, non sentirsi addosso la responsabilità dei suicidi in carcere è la cosa più orribile che possa capitare a questa nostra umanità. Purtroppo oggi ci accompagna solo l’indifferenza come del resto ho scritto nel mio editoriale sull’ultimo numero della rivista che dirigo e cha per titolo “La zona di interesse”. Quanto all’altro punto della domanda, la risposta è sì, le richieste di risarcimento da parte di familiari che hanno avuto un loro caro suicida in carcere ci sono. Purtroppo spesso finiscono nel nulla, alle volte è persino complicato e non viene accolta neppure la richiesta di un’autopsia in caso di una morte sospetta. 

D – Avere giustizia e trasparenza costa molto impegno e fatica?

R – Sì. Anzi, troppo. E il controllo non piace a chi ha il potere. Significativo un fatto del quale si è avuto notizia a febbraio di quest’anno. E’ successo che i giudici della Terza sezione civile di Roma hanno reso definiva la condanna del ministero della Giustizia che è stato costretto a pagare quasi 223 mila euro alla mamma e circa 212 mila alla moglie di un giovane detenuto stroncato da un’overdose di cocaina durante la carcerazione a Regina Coeli.

Alla struttura carceraria è stata addebitata metà della colpa.  Lo Stato aveva cercato in tutti i modi di chiamarsi fuori e opporsi, attraverso l’Avvocatura di Stato, provando a ribaltare sul ragazzo dipendente dalla cocaina l’intera responsabilità. Non gli è andata bene. Un bel segno questa vittoria delle due donne. Ma è bene ricordare che il fatto era accaduto 22 anni fa.

D – Lei ha fondato e dirige il mensile Voci di dentro, che si occupa della realtà carceraria. Lei è stato redattore al Mattino di Padova, Il Messaggero, Il Diario di Palermo e altri giornali per così dire normali, che cioè non hanno avuto e non hanno un particolare interesse per il mondo carcerario, si limitano come tutti alla cronaca giudiziaria. Quando e perché le è venuta l’idea di dar vita a un tale organo di informazione sul mondo delle carceri?

R – Ho registrato in Tribunale la rivista Voci di dentro nel 2009. Volevo raccontare il carcere facendolo però raccontare da chi lo conosce bene, da chi lo vive, da chi ci sta dentro. Ci occupiamo di diritti, giustizia e società. Oltre a persone in stato di disagio (detenuti, ex detenuti, altri) la rivista è scritta da volontari, esperti, giuristi, psicologi, sociologi e da figure che hanno ricoperto ruoli importanti e note nel mondo dell’amministrazione penitenziaria. 

Dentro il carcere si concentrano tutte le contraddizioni della società, più che mai giusto guardarlo da vicino… anche per capire la società. Voci di dentro è informazione dal basso, è giornalismo sociale. Senza altri scopi se non quello di informare su una realtà, a partire da quella penale e giudiziaria, distorta, manipolata e usata dal sistema dei media (e da quello penale), per fini che non hanno nulla a che vedere con il giornalismo. La R rovesciata nella testata è per rappresentare il nostro essere contro corrente, senza padroni, contro un sistema che stereotipizza, semplifica, riduce le complessità sociali, producendo una realtà alterata, e dunque escludente.

D – Il suo mensile si chiama, significativamente, Voci di dentro. Voci che grazie soprattutto a lei arrivano anche fuori. Ma c’è chi dà loro ascolto?

R – Voci di dentro, cinque numeri all’anno, mediamente 72 pagine a numero, viene stampato e spedito a casa di chi ce lo chiede inviandoci un piccolo contributo per le spese. In rete è gratis (si può sfogliare con visualizzatore pagine a questo link:   https://www.calameo.com/read/0003421548324569fe117

oppure può essere letto il pdf a quest’altro link :  https://drive.google.com/file/d/1xhF1KDOSHYYwLUM2YHezKjafr1vokzbr/view?usp=sharing ). Chi vuole sapere ci ascolta, chi è sordo per scelta …pazienza. Viviamo tempi in cui il dialogo, il rispetto e il ragionamento sono difficili, ma non per questo si deve rinunciare a fare informazione.  

 

D – Esiste in Europa o nel mondo un Paese con una condizione carceraria ottimale da prendere come esempio positivo?

R – Nei paesi del Nord Europa ci sono buoni esempi. Norvegia, Scandinavia e Finlandia hanno molto da insegnarci per quanto riguarda il rispetto della dignità delle persone che finiscono in carcere. E lì sono più basse anche le pene. Ma anche in Spagna i detenuti sono trattati con maggiore umanità. Le stanze dell’amore ci sono da anni e i detenuti possono telefonare a casa tutte le volte che vogliono, senza limiti. In Italia siamo ancora a dieci minuti a settimana. Comunque la condizione ottimale è che non si siano più carceri.  

 

D – L’ex parlamentare e ministro Renato Brunetta dopo le dichiarazioni di Mattarella ha reso noto con un comunicato scritto che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL,) del quale è presidente, ha varato “un percorso per promuovere studio, scuola, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”. Si tratta del “programma Recidiva Zero, nel cui ambito abbiamo presentato un primo Disegno di legge e istituito il Segretariato Permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. Abbiamo predisposto un documento con le linee guida per le progettualità da realizzare nelle prossime settimane”. Cosa ne pensa?

 

R – Tutte le iniziative e tutti i progetti che hanno l’intento di portare nelle carceri cultura, conoscenza e lavoro sono la base per costruire una società migliore. In carcere ce ne è bisogno più del pane.

 

D – Brunetta ha concluso il suo comunicato con queste parole: “Con l’impegno di tutti il traguardo della riabilitazione dei detenuti potrà vedere la luce e il mondo carcerario diventare un luogo più umano”.  Obiettivi ambiziosi, da Paese realmente civile: riusciremo a raggiungerli?

R – Ci riusciremo, perché questi obiettivi dobbiamo raggiungerli. Voci di dentro lavora per questo.

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