Rigiro tra le mani Il Corriere della Sera del 10 agosto. Non credo ai miei occhi: c’è la notizia del suicidio in carcere di una tossicodipendente, in prima pagina per giunta! Ho lavorato per anni nel recupero di drogati e detenuti e ho sempre sperato in un sussulto di attenzione dell’opinione pubblica per questi fatti…
Ma il titolo del pezzo mi chiarisce che la vera notizia è un’altra: “Morte in cella. Io, giudice, confesso che ho fallito“. Deve essere questa, la notizia, perché è una confessione insolita per un magistrato.
In carcere si suicidano una settantina di detenuti all’anno e non ne parla praticamente nessuno. Si suicidano anche le guardie – meno dei detenuti, ma di più che in ogni altro lavoro -, ma non fa notizia, come passa sotto silenzio che il numero totale dei suicidi è aumentato quest’anno del 50%.
E poi, non porta lettori ai giornali (né voti ai partiti) ricordare che in carcere un detenuto su tre è in attesa di condanna definitiva e uno su sei attende addirittura il primo grado di giudizio: un record europeo!
Si è suicidata Donatella, ventisette anni, che entra ed esce dal carcere per piccoli furti commessi per pagarsi la droga. Tra una carcerazione e l’altra aveva tentato la via della comunità di recupero, ma invano.
Il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona ha a cuore il caso e studia una misura alternativa alla pena che non arriva in tempo. Nell’intervista al Corriere si dice convinto che “le strutture detentive non sono a misura di donna […], le detenute vanno approcciate in modo diverso, hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite in modo specifico e del tutto peculiare”.
D’accordo, ma si tratta di considerazioni inapplicabili, tra l’inerzia della politica e la cultura dilagante che nega ogni distinzione netta tra “maschile” e “femminile”.
In ogni caso, il problema di Donatella era la sua doppia reclusione: nella cella e nella gabbia della dipendenza. Una tortura e una sofferenza senza pari: Donatella si è uccisa col gas della bomboletta di un fornello.
Chissà, forse un giorno la società – dopo aver lasciato la libertà di drogarsi – garantirà anche a questi casi il diritto al suicidio assistito. Liberi di rovinarsi la vita, ma di curarne la fine?
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