RECOVERY FUND/ Il ritardo di Conte riavvicina Draghi a palazzo Chigi

Non ha suscitato molta attenzione la notizia che i tassi sui titoli di debito portoghesi sono scesi in territorio negativo. Il Portogallo come la Germania: è il paradosso di un mondo a testa in giù, in cui il denaro non costa nulla, anzi chi lo presta deve pagare anziché intascare gli interessi. Ci sono fior di economisti i quali pontificano su una nuova teoria della moneta e politici (in Italia si distingue il leghista Borghi) secondo i quali indebitarsi conviene alla faccia di tutti parametri di Maastricht. Conviene alla Germania che ha emesso Bund cioè titoli di stato per 160 miliardi di euro incamerati direttamente dal Tesoro, conviene persino al Portogallo che durante la crisi dell’euro nel 2011-2012 doveva pagare tassi dell’11% o alla Spagna i cui tassi s’avvicinano a quota zero. Conviene davvero all’Italia?

Anche i buoni del Tesoro stanno beneficiando dell’abbondanza di moneta creata dalla Banca centrale europea, dai mercati internazionali e dall’assenza di inflazione (i tre fattori che tengono il costo del denaro inchiodato ai minimi storici). Tuttavia tra Italia e Portogallo c’è una differenza di oltre un punto percentuale. In altri tempi sarebbe trascurabile, oggi al contrario è un campanello d’allarme. Nonostante la grande differenza tra i due Paesi e la distanza che separa per dimensione e qualità l’economia reale italiana e quella portoghese, resta il fatto che Roma è ancora lontana dalla stabilità finanziaria, mentre Lisbona s’è messa al sicuro gestendo in modo oculato la finanza pubblica e riducendo via via il deficit dello Stato senza per questo provocare nessuna “macelleria sociale”, al Governo del resto ci sono i socialisti non i liberisti.

Dieci anni fa c’erano i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) ad accendere la santabarbara dei mercati, oggi sono rimaste Grecia e Italia. È una riflessione che va tenuta in mente mentre torna il tormentone su Mes sì e Mes no (domani l’Italia dovrebbe dare il via libera alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità bloccata un anno fa dal veto) e soprattutto ora che Bruxelles, Parigi e Berlino hanno cominciato un vero e proprio pressing sul governo Conte perché sveli finalmente il mistero sul piano per la ripresa e dica come vuole impiegare i 143 miliardi di euro disponibili nei prossimi due anni.

Leggendo quel che il ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire ha detto al suo partner italiano, verrebbe da pensare che Roberto Gualtieri abbia immediatamente chiesto un vertice a Giuseppe Conte. A quanto risulta non c’era solo l’invito a far presto, ma anche la proposta concreta di condividere con Francia e Germania scelte comuni sui settori strategici dell’economia europea (a cominciare dagli investimenti nel 5G e nell’economia verde). Invece non risulta che il Governo se ne sia curato, la sua preoccupazione sembra a questo punto concentrata su un possibile “rimpasto”. Esattamente la stessa che attraversava un anno fa i partiti della maggioranza e lo stesso presidente del Consiglio, sempre molto attento a evitare ostacoli sul suo cammino. Con un’aggravante non di poco conto: allora il Covid-19 stava covando, ma nessuno lo sapeva, ora siamo in piena seconda ondata della pandemia che prepara una seconda recessione.

Per carità, guai a sottovalutare l’importanza di un “rimpasto”. Conte ha incassato il sì della destra al nuovo indebitamento, in teoria potrebbe considerarsi al riparo da sgambetti e congiure di palazzo, tuttavia teme che toccando una sola casella, anche la meno importante, accada come nel gioco del Mikado. Non solo. C’è nell’aria una questione che potrebbe diventare una miccia politica: chi gestirà le risorse del piano per la ripresa?

È tipicamente italiano porsi il problema di chi ha il potere prima ancora di sapere che cosa farne, il formalismo è parte di una storia politica secolare. Tuttavia questa volta sono in ballo tanti quattrini che fanno gola a tutti. In settimana l’Assonime, l’associazione delle società per azioni, ha proposto che la “cabina di regia” venga guidata da un ministro senza portafoglio. Definizione singolare visto che dovrà sovrintendere all’utilizzo di oltre duecento miliardi in cinque anni. Certo, meglio che affidarsi a una soluzione tecnica, ma in ogni caso una figura dotata di scarso potere è destinata al fallimento. Conte vorrebbe tenere per sé la regia, ma è chiaro che non sarebbe in grado di seguire un processo molto vasto e complesso.

Non si fa certo peccato a pensare che le resistenze e i ritardi nel definire e presentare il piano italiano non siano dovuti a disattenzione, negligenza o, peggio ancora, incompetenza, ma abbiano una motivazione politica. Una volta sciolto nella maggioranza e nel Governo il nodo di chi comanda è probabile che la macchina si metta in moto. Un ostacolo non da poco riguarda il Mes. Anche in questo caso non contano molto i contenuti, non si discute se davvero l’Italia può risparmiare e quanto, se potrà investire denari che oggi il Governo non ha sulla salute (gli stanziamenti previsti nella Legge di bilancio 2021 sono noccioline in rapporto al disastro del sistema sanitario), ma su chi li distribuirà: il Pd che vuole il ricorso al fondo europeo salva-Stati o il M5S che si oppone (a meno che non serva per rifinanziare il reddito di cittadinanza e altre simili misure assistenziali). Conte pende più verso i grillini che restano i suoi sponsor politici, ma in più occasioni ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte pur di restare a galla.

Dunque, ritardi, confusione, divisioni, e di nuovo un grande spettro che turba i sonni del capo del governo convinto che tutto questo gran parlare di Recovery fund, cabine di regia e ministri ad hoc nasconda l’arrivo di Mario Draghi. Solo a sentire il suo nome a Conte viene l’orticaria, come ha mostrato anche in televisione, e per di più non riesce nemmeno a grattarsi.

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