Roma, 12 gennaio 2025 – C’è chi dice no. Musk ha trasformato in pochi mesi X in un terreno di scontro ideologico, scagliandosi in prima persona contro quello che chiama “il pensiero woke”. Meta ha eliminato sia i team di fact checking, sia le politiche sull’inclusività, e su questo punto è seguita anche da Amazon. Si direbbe che i grandi delle big tech abbiano deciso di chinare la testa e allinearsi al vento del trumpismo che tira sempre più forte. Proprio per questo, desta ancora più scalpore la decisione di Apple, che ha raccomandato agli azionisti di votare contro la proposta di porre fine ai programmi di diversità, equità e inclusione (DEI) dell’azienda, dopo che il centro nazionale per la ricerca sulle politiche pubbliche, un think tank conservatore, ha proposto di abolirli. La decisione definitiva sarà presa il prossimo 25 febbraio, ma una nota dello stesso cda la dice lunga su come sia stato preso questo invito. “La proposta – si legge nel comunicato diffuso dall’azienda – vuole in modo inappropriato limitare la capacità di Apple di gestire le proprie operazioni aziendali ordinarie, le persone, i team e le strategie”. Mela mangiata sì, insomma, ma mela marcia no.
La decisione del colosso di Cupertino segna una vera e propria controtendenza, ma non è detto né che rimanga isolata né che le aziende che si sono piegate alla linea presa da Elon Musk lo facciano per mera sudditanza. “Bisogna dividere i due piani – spiega Marco Cacciotto (foto sotto), consulente strategico e docente di marketing politico alla Lisbon Business and Government School –. Sulla questione della moderazione dei contenuti, dobbiamo tenere presente che per le piattaforme rappresentavano una criticità per due motivi, posto che il problema è con l’Unione Europea e non con gli Stati Uniti. Il primo è che controllare e moderare tutti i contenuti politici che vengono postati è oggettivamente difficile, soprattutto con le norme stringenti imposte da Bruxelles. Il secondo è che per le piattaforme questo ha un costo. Si era parlato anche di una possibile discesa in politica di Zuckerberg. Dobbiamo tenere presente che ormai da tempo assistiamo a una ibridazione di questi personaggi, che non sono più solo imprenditori, ma vere e proprie entità sovranazionali che con le nazioni hanno a che fare, e non dimentichiamoci che, pur essendo colossi globali, sono pur sempre aziende americane”.
Secondo Cacciotto, poi, ci sarebbe anche un altro aspetto da tenere in considerazione. In un momento in cui Trump sta rinegoziando un po’ tutto, i grandi colossi potrebbero chiedergli di difendere i loro interessi fuori dai confini nazionali, magari proprio in Europa, dove la normativa obbliga i social a maggiore responsabilità e dove, grazie al DSA, rischiano di incorrere in sanzioni molto pesanti in caso di inadempienza. Altro discorso è quello delle politiche sull’inclusività. Qui sembra davvero che i nomi più importanti dell’economia americana abbiano voluto adeguarsi alla retorica del trumpismo. Proprio per questo, Apple rischia di diventare un caso.
“Va considerato – continua Cacciotto – che Apple vanta una tradizione molto liberale e lo stesso ceo, Tim Cook, si è speso molto su questo punto. Può essere interessante ricordare come, all’inizio del primo mandato di Trump, durante il Superbowl, molte aziende americane mandarono in onda campagne pubblicitarie evidentemente critiche con le teorie del presidente. In questo momento sembra abbiano meno voglia di battersi, ma probabilmente stanno cercando di capire che cosa accade. Teniamo poi presente che queste aziende non sono un partito, devono difendere i loro interessi”.