“La sinistra siamo noi”, ha detto di recente Enrico Letta. Con questa sorprendete rivendicazione di appartenenza politica – sorprendente perché ogni cosa in Letta denuncia il suo passato da eterno giovane democristiano – il segretario del Partito democratico ha risposto a chi, all’indomani del patto elettorale firmato con Azione di Carlo Calenda, ha obiettato che quell’accordo avrebbe spostato a destra l’intero centrosinistra.
Alla base delle critiche ricevute da Letta non ci sono tanto i contenuti ideali del patto, che tutto sommato sono sufficientemente vaghi com’è normale che sia in queste occasioni, salvo l’ancoraggio alla cosiddetta agenda Draghi. Ci sono invece le conseguenze che avranno le regole stabilite per la spartizione delle candidature nel centrosinistra.
Con l’attuale legge elettorale, infatti, i tre ottavi dei parlamentari – e quindi circa un terzo delle camere – vengono eletti in collegi uninominali nei quali a vincere è il candidato che prende più voti. Nessuno degli attuali partiti, né a destra né a sinistra, ha la forza per correre da solo e vincere in questi collegi, che peraltro sono ritenuti decisivi anche per il risultato generale delle elezioni del prossimo 25 settembre. È per questo che le forze politiche sono spinte a coalizzarsi.
Semplificando un po’, l’accordo tra Pd e Azione prevede che il 70 per cento delle candidature in quei collegi andrà alla lista formata dal partito di Letta e il 30 per cento a quella formata da Calenda insieme a +Europa di Emma Bonino. È evidente che Azione in questa fase abbia ottenuto molto più di quanto effettivamente valga in termini elettorali. Ed essendo Azione un partito liberale e moderato, considerando il patto dal punto di vista dei numeri, più è ampio lo spazio garantito alla sua rappresentanza politica, più si riduce quello a disposizione dell’area di sinistra.
Verso posizioni moderate
Più importante ancora dei numeri è però il significato politico che quell’accordo comunica agli italiani a proposito di un nuovo slittamento del centrosinistra verso il centro, anche a costo di lasciare scoperto il fianco sinistro. E non è ancora tutto.
L’accordo prevede infatti che in campagna elettorale ci siano due cosiddetti front runner, e che quindi Letta e Calenda guideranno in autonomia ciascuno la propria lista. Inoltre, le due liste presenteranno separatamente un proprio e diverso programma. Insomma, tutto considerato è evidente che quello messo in piedi da Letta e Calenda – costretti anche da una legge elettorale piuttosto discutibile – sia un cartello elettorale, più che una alleanza politica. Ed è altrettanto evidente che sia un cartello pensato non tanto per vincere, quanto invece per provare a pareggiare, o comunque a non perdere con troppo distacco.
Nella seconda repubblica il baricentro dell’intero quadro politico si è spostato sempre più verso destra. E potrebbe accadere anche questa volta
È difficile immaginare che, vincendo le elezioni, quel cartello possa trasformarsi in una vera alleanza politica, data la spiccata eterogeneità politica di un raggruppamento nel quale oltre al Pd e ad Azione vanno inclusi almeno anche +Europa e Articolo Uno, oltre a un buon numero di fuoriusciti da Forza Italia accolti da Calenda nelle ultime e settimane. Inoltre, è ancora in corso una trattativa per un accordo di natura elettorale anche tra il Pd e il fronte formato da Europa Verde di Angelo Bonelli e Sinistra italiana di Nicola Fratoianni. E fino all’ultimo momento non sono da escludere altri nuovi innesti.
Ciò di cui invece per il momento si può essere sicuri è lo spazio marginale che sarà a disposizione delle forze di sinistra. La sola presenza del segretario di Articolo Uno Roberto Speranza non è di per sé in grado di rovesciare i rapporti di forza nei mesi a venire. Se anche si chiudesse positivamente un accordo tra Pd, Europa Verde e Sinistra italiana, difficilmente gli equilibri politici nel centrosinistra cambierebbero molto rispetto a quelli emersi dopo l’accordo tra Letta e Calenda, almeno dal punto di vista simbolico.
Quanto infine al raggruppamento formato da Potere al Popolo, Rifondazione comunista, Luigi de Magistris, e più in generale all’area che si definisce della sinistra radicale, per quanto animata da un sincero tentativo di riportare al centro della scena idee alternative a liberalismo e liberismo, risulta però spesso incapace di costruire un orizzonte culturale solido e resistente. E tutto questo senza considerare le tante altre sigle la cui militanza si riduce a forme sterili di reducismo.
Senza più spazio a sinistra
Così, con un Pd che, come ha affermato Letta, intende occupare ancora l’area che spetterebbe alla sinistra, e con una sinistra che non pare in grado di contendere quello spazio sia per ragioni dovute al sistema elettorale, sia per propri limiti culturali, l’area politica collocata a sinistra del Pd pare condannata all’irrilevanza anche nella prossima legislatura.
Del resto, sono almeno tre decenni che quello spazio è occupato da partiti – Margherita e Democratici di sinistra prima, il Pd poi – che hanno progressivamente ricollocato il centrosinistra su posizioni sempre più moderate, fino a coincidere a volte con quelle del centrodestra, come è evidente considerando le politiche del lavoro e quelle sulla sicurezza, o la scomparsa dei diritti sociali dalla scena.
È accaduto non tanto per la forza attrattiva del pensiero moderato o di quello liberale, quanto invece per la debolezza culturale delle forze che negli anni della seconda repubblica si sono collocate nel centrosinistra. Chiusa la stagione delle ideologie e incapaci di una nuova elaborazione ideale, queste forze hanno ricostruito la propria identità politica soprattutto contro un nemico del quale hanno sempre avuto bisogno per giustificare la propria stessa esistenza. Da questo punto di vista, Pd, Movimento 5 stelle e sinistra radicale sono molto simili. Ci si è così ridotti alla proclamazione di una emergenza permanente, o agli allarmi per la tenuta democratica qualora gli avversari avessero preso il potere. E soprattutto nel Pd si è pensato che lo sconcerto e l’insoddisfazione del proprio elettorato si potessero superare con continue richieste di voto utile, pratica peraltro piuttosto violenta e che negli anni ha prosciugato sempre più il voto di sinistra, senza far crescere significativamente quello moderato.
Insomma, al di là di chi poi di volta in volta abbia vinto le elezioni, nel corso della seconda repubblica l’esito di questi processi è sempre stato quello di spostare verso destra il baricentro dell’intero quadro politico. A quanto si capisce, è quello che potrebbe accadere anche questa volta.
D’altra parte, la cosiddetta agenda Draghi, che costituisce il perimetro ideale del cartello formato da Calenda e Letta, rappresenta per definizione un nuovo slittamento a destra del Pd. E adesso lo stesso Pd rischia di essere identificato sempre più con l’area inclusa in quel confine che è strutturalmente calendiana, a maggior ragione se a Letta continuasse a mancare un seppur minimo ancoraggio a sinistra. Il rischio, allora, è che prima o poi Calenda provi a prendersi tutto.