07 ottobre 2022 15:18
Nel suo libro del 1957, L’arte magica, André Breton cercava di rileggere l’intera storia dell’arte secondo un’ottica surrealista. Partiva dall’arte preistorica e arrivava alle avanguardie, sempre seguendo il filo antipositivista della spiritualità, dell’inconscio e della magia. A proposito dell’arte moderna scriveva che “tutta la pittura che conta in questa prima metà del novecento si è sviluppata sotto il segno di de Chirico e del maestro delle improvvisazioni (Kandinskij)”. Più avanti aggiungeva che l’ago di questa bilancia de Chirico-Kandinskij fosse Marcel Duchamp , “il grande iniziatore segreto della sensibilità contemporanea”.
Difficile dargli torto, eppure visitando la grande retrospettiva milanese dedicata a Max Ernst e curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech, non si può non pensare al maestro tedesco come a una sorta di ago aggiuntivo di quell’ideale bilancia: un ago fantasma che si sposta da una parte all’altra dello spettro della pittura moderna secondo un sistema di pesi e misure tutto suo.
Di Max Ernst, nato a Brühl nella regione tedesca della Renania nel 1891 (quindi poco più giovane di Duchamp) sono evidenti la duttilità e il polimorfismo. Le prime sale della mostra seguono un criterio cronologico che poi si andrà sfaldando nelle sale successive, più tematiche, proprio per stare dietro alla sua impressionante varietà di temi e di tecniche.
Profeta dell’arte contemporanea
I primi disegni raccontano lo sviluppo del suo stile: da un giovanile ritratto a matita della sorella Loni del 1909 (felice nel segno ma ancora acerbo) si passa a una Donna seduta con cappello del 1913 che con i suoi tratti larghi e decisi di grafite rivela già buona dimestichezza con l’espressionismo tedesco. Ernst dal 1911 era amico di August Macke, uno dei protagonisti del movimento pittorico del Blue Reiter (Cavaliere azzurro) cui faceva capo anche Kandinskij. L’incontro con la metafisica di Giorgio de Chirico avviene invece nel 1919, quando Ernst, in visita a Monaco di Baviera, si ferma alla libreria Goltz dove sfoglia un numero della rivista italiana Valori plastici.
A ventotto anni Max Ernst conosce già i due estremi della bilancia della pittura moderna di cui parlava André Breton, il colorismo spirituale del Blaue Reiter (e di Kandinskij) e i paesaggi stranianti del de Chirico ferrarese. Partendo da quella base comincia una sperimentazione instancabile, artistica ma anche di vita, che durerà fino al 1976, l’anno della sua morte. Dai primi anni venti sperimenta con collage e fotomontaggi, molto diversi dai papier colllés di cubisti e dadaisti. Se i cubisti usavano il collage come mezzo per far entrare nel quadro lacerti di vita quotidiana – spartiti musicali, carta di giornale, paillettes e lustrini del varietà – Ernst lo usava per crearsi da zero un sistema di segni ermetico e personale: pescava tra le illustrazioni più desuete con un gusto per il ritrovamento démodé che oggi definiremmo camp e che siamo abituati a vedere in tanta arte contemporanea.
In mostra vediamo alcune tavole del suo romanzo-collage Una settimana di bontà (1934, recentemente ristampato da Adelphi) che assemblano illustrazioni scadenti da romanzi d’appendice d’amore o d’avventura, ritagli di vecchie enciclopedie con una modalità che, con segno diverso, dal surrealismo è passata alla pop art.
Sala dopo sala, tema dopo tema, tecnica dopo tecnica, Max Ernst si presenta al visitatore di oggi come una specie di mago e profeta dell’arte contemporanea. Edipo re, una grande tela del 1922, sembra il remix di un quadro di de Chirico, ma con la sua limpida prospettiva quattrocentesca tutta sballata: una grande mano spunta da una parete a mattoncini e porge una noce trafitta da un arco e una freccia, che si conficcano come spilli, a due creature con il collo intrappolato da una struttura in muratura. Una delle due è un uccello con gli occhi umani e truccati da sciantosa del varietà. Il Manifesto del surrealismo di André Breton uscirà solo due anni dopo, il 18 ottobre del 1924, ma Edipo re è già un manifesto pittorico: l’ermetismo dei simboli, i temi freudiani, il sogno come miniera di temi e di motivi e un inquietante senso di tabù sessuale. Nel Bacio (1927), dalla collezione Peggy Guggenheim di Venezia (Ernst era stato brevemente sposato con Guggenheim all’inizio degli anni quaranta), vediamo una saldatura tra il surrealismo onirico e metafisico di Ernst con quello plastico e sensuale di Picasso: le terre sono ancora quelle di de Chirico, ma il turchese del cielo su cui si stagliano le due figure-sculture ricorda quello di certe bagnanti dell’artista spagnolo.
Dello stesso anno sono i paesaggi surrealisti: Bosco di spine rosse, Foresta e colomba (in cui ricorre il tema del pennuto stilizzato come in certa arte precolombiana) e soprattutto la Foresta della collezione Guggenheim, con i suoi alberi-totem, fitti di segni e di incisioni misteriose.
Difficile immaginare le copertine dei romanzi tascabili di fantascienza del dopoguerra senza questi paesaggi crepuscolari e inquietanti. Con la guerra di Spagna e l’avvicinarsi della seconda guerra mondiale (Ernst aveva combattuto da ragazzo nella prima) la pittura di Ernst si fa più angosciosa ma anche più ironica. L’angelo del focolare (1937), in prestito da una collezione privata svizzera, è ancora una volta una sorta di uomo-uccello, un Frankenstein composto da parti colorate di altre creature. La figura può sembrare infuriata o impegnata in una frenetica danza. “L’ho dipinto dopo la caduta dei repubblicani in Spagna”, ha spiegato Ernst in un’intervista televisiva: “L’angelo del focolare è un titolo ironico per una specie di trampoliere che distrugge e annienta tutto quello che incontra. Questa era la mia impressione di ciò a cui il mondo stava andando incontro, e ho avuto ragione”.
L’angelo del focolare anticipa anche creature mostruose nate nel dopoguerra nella cultura popolare: mostri postatomici giapponesi come Godzilla o certe creature gigantesche nelle copertine di riviste di fumetti statunitensi come Tales to astonish e Strange tales. Più si avanza nelle sale della mostra e più è chiaro come il surrealismo, con il suo sperimentalismo e quella che oggi chiameremmo multimedialità, ha influenzato tutte le arti, anche quelle più popolari e basse, del dopoguerra. Ernst stesso sembra non curarsi della distinzione tra arte per l’arte e arte applicata: impagina i propri cataloghi, illustra le sue storie, crea sculture, gioielli e piatti.
La porosità dell’arte di Max Ernst e la sua capacità di penetrare anche nella pratica delle generazioni più giovani è evidente in un lavoro del 1943 intitolato L’anno 1939. L’opera è un collage su carta realizzato nel periodo in cui viveva con Peggy Guggenheim a Cape Cod. Un tronco scheletrico agita i suoi arti sconnessi e tutto intorno una serie di segni disordinati, di rapide macchie di inchiostro nero danno una rapinosa sensazione di movimento.
Ernst aveva ottenuto quell’effetto forando una lattina e riempiendola di colore nero. La lattina bucata veniva legata a una corda lunga due metri che poi veniva fatta oscillare sul foglio: la casualità dell’oscillazione creava effetti solo in parte dipendenti dalla volontà dell’artista. Era una variante delle tante pratiche di automatismo surrealista praticate da Ernst fin dal 1919 tra grattage, frottage e sovrapitture. Alcuni giovani pittori statunitensi rimangono colpiti da questa tecnica e uno in particolare, Jackson Pollock, la chiamerà dripping (gocciolamento) e, coinvolgendo tutto il suo corpo e tele molto grandi, la userà come base per l’action painting.
Max Ernst A cura di Martina Mazzotta e Jürgen Pech.
Milano, Palazzo reale, fino al 26 febbraio 2023. (Catalogo Electa)